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e discepolo di questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun dubbio multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina, sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e sua moglie, rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual piú anni aveva per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, co’ suoi consigli, l’animo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo Seneca, per menomare la ’nvidia portatagli, pregò Nerone che tutte le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando che nell’animo non avea, ciò, che egli rifiutava, ritenere gli fece. Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò del tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a fuggire la lunga compagnia de’ clientoli, e a dimorare il piú del tempo ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea. . Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone da molti de’ senatori e da piú altri dell’ordine equestre, e da’ centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo morire, non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria malvagitá e come uomo che era disideroso d’adoperare crudelmente la sua potenza co’ ferri. Ed essendo per ventura di que’ di, secondo che scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue Storie, tornato Seneca di campagna, s’era rimaso in una sua villa, quattro miglia vicino