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maggiore, chiamata Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce d’un fiume de’ colchi, il quale si chiama Phasis. E in questo esilio dimorando, compose alcuni libri, si come fu quello De Irislibus, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli intitolò In Ibín. Composevi quello che egli intitola De Ponto, e tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.

La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, si come egli scrive nel libro De Irislibus, mostra fosse l’una delie due o amendue; e questo mostra scrivendo: Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error. La prima adunque dice che fu l’aver veduta alcuna cosa d’Ottavian Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo: Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?

Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo convenirgliele tacere, quivi:

Allerius facti culpa silenda mihi est.

La seconda cagione dice che fu l’avere composto il libro De arte amandi, il quale pareva molto dover adoperare contro a’ buon costumi de’ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol molto, e quanto può s’ingegna di mostrare questo peccato non aver meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono lui essersi inteso in Livia moglie d’Ottaviano, e lei esser quella la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli. Ultimamente, essendo giá d’etá di cinquantotto anni, l’anno quarto di Tiberio Cesare, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, nella predetta isola Tomitania fini i giorni suoi, e quivi fu seppellito.