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polmone e vien su insino al palato, e quindi spiriamo e abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa, non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le nostre parole piú simili al gorgogliare, che fa talvolta uno uccello, clic ad umana favella, E percioché questi peccatori hanno la gola piena del fango e dell’acqua del padule, è di necessitá che essi si gorgoglino questo lor doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi posson con parola integra», perché è intrarotta dalla superchia umiditá. «Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte principale, nella quale Tautore dimostra il processo del loro andare, e dove pervenissero, dicendo: «Cosi», riguardando i miseri peccatori che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda pozza Grand’arco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa d’un arco. E chiamala «pozza», il quale è proprio nome di piccole ragunanze d’acqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto a’ poeti (cioè d’usare un vocabolo per un altro), per la stretta legge de’ versi, della quale uscir non osano. E quinci dice che egli girarono, «tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva l’acqua del padule, «e’1 mezzo», del padule, «Con gli occhi vólti a chi del fango ingozza», cioè a’ peccatori, li quali erano in quel padule: «Venimmo al piè d’una torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente aggirato.