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capo vi. 105

di pensare a sè, e che avrebbe dovuto usare l’aura propizia per tirarsi fuora dalle angustie del convento e inalzarsi ai primi onori della Chiesa: profittasse di pontefice benevolo e una mitra o un cappello rosso essere, da preferire ad un povero cappuccio. Ma il Sarpi che non si sentiva di queste ambizioni rispondeva in tuono contrario; e una volta scrivendogli in cifra si lasciò scappare alcune frasi un po’ ardite, dicendo che non apprezzava la Corte, che anzi la abborriva, stantechè ivi le dignità non si possono ottenere se non con male arti. Bisogna che Frà Paolo avesse ragione, e che la corte romana sia una peccatrice incorreggibile, perchè due secoli dopo il celebre Scipione de’ Ricci, che fu poi vescovo di Pistoia, fu disgustato dai raggiri e dalle cabale di quella corte, e trovò essere incompatibile il mantenersi galantuomo e perfetto cristiano entrando nella carriera della prelatura colla idea, come dicono, di far fortuna e di pervenire ad alti posti; e se alcuno vi è riuscito, lo giudicava il rara avis in terris.

Tornato Frà Paolo a Venezia e udite le furfanterie del Dardano e le querele degli amici, anzi di tutto il convento, vennero fra loro a parole, indi ad aperta nemicizia, e scrissero a Roma l’uno contro l’altro: Frà Paolo producendo le prove della mala amministrazione del Dardano, e questi accusando Frà Paolo di sospetto nella fede per ciò che praticava con eretici ed Ebrei. Non era creduto l’ex-provinciale perchè la riputazione del Sarpi era troppo bene stabilita; e poco si avvantaggiava l’ex procuratore, perchè Gabriele spendeva alla ricca e