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ii. lettera semiseria di grisostomo 43

dica: non tener conto de’ peccati di lei. Dimentica, figliuola mia, dimentica la tua afflizione terrena; pensa al Signore, pensa alla beatitudine eterna; e t’assicura che non verrá meno lo sposo all’anima tua.
     — E che è mai, o madre, la beatitudine eterna? che mai, o madre, è l’inferno? Con lui, con lui è beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non v’ha che inferno. Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo: muori, muori sepolta nella notte e nell’orrore! Senza di lui, né sulla terra né fuori della terra posso aver pace io mai. —

Cosí a lei nella mente e nelle vene infuriava la disperazione. Piú e piú continuò temeraria ad accusare la provvidenza di Dio; si percosse il seno, si storse le mani, fino al tramonto del sole, fino all’apparire delle stelle auree per la vòlta del cielo.

Quand’ecco, trap trap trap, un calpestio al di fuori come una zampa di destriero; e strepitante nell’armadura smontare agli scalini del verone un cavaliere. E tin tin tin, ecco sfrenarsi pian piano la campanella dell’uscio; e da traverso l’uscio venire queste distinte parole:

— Su su! Apri, o mia cara, apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che intenzioni sono ancora le tue verso di me? Piangi o sei lieta?
     — Oh cielo! Tu, Guglielmo? Tu... di notte.., cosí tardi?.. Ho pianto, ho vegliato. Ahi misera! un grande affanno ho sostenuto... E donde vieni tu cosí a cavallo?

— Noi non mettiamo sella che a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a questa volta, fino dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio condurti meco.
     — Ah Guglielmo! Entra prima qua dentro un istante. Su presto! Il vento fischia ne’ roveti. Entra, vieni, cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie braccia.

— Lascia pure che il vento fischi fra i roveti: lascialo fischiare, anima mia, lascialo fischiare. Il mio cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In questo luogo non m’è concesso alloggiare. Vieni, succingiti, spicca un salto e géttati in groppa al mio morello.