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118 scritti critici e letterari


Io proseguiva a leggere; ma mi convenne obbedire al Tiraboschi, che mi rimandò molte pagine indietro. Dal qual mio viaggio retrogrado venni a raccogliere che prima de’ bei tempi della romana letteratura la poesia teatrale non era ancor molto in fiore, «per la ragione che l’arte di poetare non era in quell’onore che convenuto sarebbe».

Illuminato di tanto, tornai al § LI, onde sapere «perché nel piú bel secolo della romana letteratura la poesia teatrale non giugnesse a maggior perfezione». E qui confesso l’alta ammirazione che svegliò in me la logica semplice e chiara, e nondimeno profondamente intuitiva, con cui il chiarissimo Tiraboschi, sorretto da Orazio, ebbe la bontá di confidarmi che questo non fiorire della tragedia presso i romani proveniva dallo «strepito grande che facevasi nel teatro, sicché appena vi si potevano udire ed intendere i versi», ecc. ecc. «Garganum»—ripeteva il suggeritore del Tiraboschi—

Garganum mugire putes nemus aut mare tuscum,
tanto cum strepitu ludi spectantur, ecc.

Che consolazione fu allora la mia, stimatissimo don Ruffino, nel vedere appagata cosí bene la mia curiositá! Questa è ben altra filosofia che quella di madama! Chi niega al Tiraboschi acume di speculativo intelletto, o è stolido o è mentitore o è novatore. Ecco come in poche righe viene dal sapientissimo Tiraboschi stabilito un gran principio filosofico, il quale, come tutti i gran principi filosofici dell’universo, riesce applicabile in ogni tempo ad altri fenomeni. In virtú di esso io mi sento capace di spiegare le ragioni per cui al teatro la tale o tal altra opera in musica non è bella. E dico cosí:—La tale opera non è bella perché non la si ascolta.—E mi guarderò bene dal ripetere col volgo:—Non la si ascolta perché non è bella.—

Cosí l’importunitá della veglia e l’opportunitá della lettera di V. S. contribuirono entrambe a convertire al Tiraboschi un amico traviato, quale davvero mi pregio di essere sempre di V. S. molto reverenda.

Grisostomo.