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un cadavere amato, e col lamento che lugubre dal cor gli prorompea, non cercava acquistar fama. L’afflitto «pianger cercava, non del pianto onore». Ma degli affanni suoi era la voce voce di cigno. Ed insegnò al cantore modi si dolci la Pietá che l’Eco tutti attenta gli udiva, e innamorata tutti li ripetea per le convalli. Onde i begli inni, e il bello italo nome non pur la terra risuonò, ma lieto del crescente idioma anco l’Eliso. Ivi, pago d’aver posto tanto alto Sorga e la valle e quel caro sepolcro nel grido delle genti, alle adunate ombre i suoi canti ancor manda il Petrarca, e ritenta la lira. Ivi mirollo P inclito Bossi un di, quando pur vivo meritò che un iddio per quelle sedi animoso il guidasse. In cima a un colle seminato di rose e di mortelle e di giovani allori era il tranquillo seggio del vate; e di profumi al piede cortese gli ridea la violetta. Ritto sui fianchi maestosi, a lui pacato vecchio proteggea la destra il divo Plato, e delle sue dottrine gli parlava i misteri. Al par de’ flutti dell’Eridano, i bei ragionamenti uscian perenni. E l’ascoltante alunno di sotto al serto la gioconda fronte quietando e scrivendo: — A Laura mia, grato a Laura, — dicea, — l’alto concetto n’andrá cogli altri, o veglio. Io questo verso che da te imparo, questo verso anch’esso io lo destino all’ immortai suo nome. — Poi, come amor vincealo, il volto e gli atti della donna additava, interrogando con lenti sguardi il consapevol sofo. E tu gioivi allor tutto l’Eliso,