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Il fioretto che sboccia il mattino, le rugiade piú caste del cielo son men pure del cor d’ Edevino. La rugiada ed il fior sullo stelo brillan solo vivaci un istante, quando sgombra la notte il suo velo. Come i fiori era bello il sembiante; ma piú candida l’alma d’un giglio, e dell’alma il candore costante. Ah ! eh’ io stolta con vano consiglio, ora blando-ridente e pietoso, or severo volgendogli il ciglio, ogni pace a lui tolsi e riposo; e con l’arte piú scaltra e crudele tormentai quel suo core amoroso. M’era caro saperlo fedele; ma superba godea di sue pene, e gioiva in udir sue querele. L’ infelice, perduta ogni spene, del mio lungo disprezzo affannato, ruppe alfine le dure catene: e un lontano deserto cercato, ivi morte pregò che venisse; e morendo fe’ mite il suo fato. Ma son io la crudel che ’l trafisse; e il rimorso che il cor mi flagella, giá al mio fallo l’ammenda prescrisse, e al deserto medesmo mi appella. Lá piangente, disperata, la sua tomba abbraccerò. Lá, da tutti abbandonata, la mia morte affretterò. Cosi Edevino per me mori; per lui vogl’ io morir cosi. — Ah! no, non farlo! — il solitario esclama alla vergin dolente; e corre, e se la stringe al sen teneramente.