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introduzione lxxxiii

A te sbatte lo piatto, a me lo core,
     Tu morte aspiette, ed io no spero vita,
     Tu chino de paura, io de dolore!

Nchesto sgarrammo, ed è, ca tu avarraje
     Una morte da Cecca saporita,
     Io n’aggio ciento, e non se sazia maje
1!

Il Cortese, il Basile, e il misterioso Sgruttendio, producevano le opere, che abbiamo visto, o vedremo. Ma anche altre opere dialettali si venivano stampando. Nel 1628, un Domenico Basile, pubblicava una traduzione napoletana di quel Pastor fido allora tanto prediletto, che, come dice Salvator Rosa, serviva da ufficiolo nelle chiese. E annunziava di aver pronti per le stampe altri lavori intitolati: Lo Dottore a lo sproposeto, lo Spitale de li pazze, la Casa de l’Ignoranzia, la Defenzione de li Poete napolitane contro Boccalini e Giulio Cesare Capaccio nnanze ad Apollo2. E, nello stesso 1628, Bartolommeo Zito, detto il Tardacino, accademico Risoluto3, scriveva un lungo comento napoletano alla Vajasseide e una Difesa di essa contro le censure degli Accademici Scatenati. E, senza citare le altre opericciuole in dialetto allora stampate4, basti ancora accennare alla traduzione in ottava rima del libro quarto dell’Eneide, fatta da Francesco Bernaudo5: e che ci resta qualche verso napoletano del-



  1. Tiorba, C. I, 50.
  2. O. c., pp. 23-4.
  3. Cfr., intorno a lui, Croce, I teatri di Napoli, pp. 65-7.
  4. Per le quali v. passim il Martorana, o. c.
  5. Nap., 1640, per Secondino Roncagliolo.