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252 lettere dal mare

torpedini che aspettano come palloni frenati in una glauca quiete, ai gimnoti accovacciati sulle sabbie del fondo simili a polipi giganti, alle nuove armi strane disposte contro i sottomarini, ai congegni tesi per ogni dove, alle mine nemiche che da un istante all’altro possono emergere afferrate dalla pesca o esplodere sotto alla prora, a tutta la distruzione che sta in agguato, al nemico stesso che forse è giù, a pochi metri, ed ascolta, si ha improvvisamente la rivelazione affannosa della guerra marinara nella sua fase attuale, spaventosa e senza battaglie.

È come se la forza di tutte le battaglie dormisse sott’acqua: chi la desta è annientato. La più grande delle dreadnoughts non resiste più di un ferry-boat. Un piccolo urto, una ampolla piena di acidi si rompe sulla testa di una torpedine, una debole corrente elettrica si sviluppa che potrebbe appena azionare un campanello elettrico, una sottile laminetta di platino si riscalda, e un istante dopo la immensa fortezza di acciaio, con le sue torri maestose, con i suoi cannoni enormi, cessa di esistere. E niente può rivelare l’insidia. C’è sempre l’alea di un rischio. Si naviga nella cecità. È la guerra contro l’invisibile.

Non si combatte più, forza contro forza, ma la vita del mare ha perennemente la tensione di quell’istante supremo che precede il combattimento. Si è pronti, in un’attesa conti-