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248 lettere dal mare


ni; e dodici grosse torpedini, con le loro àncore, i loro cavi, gli apparecchi che regolano la caduta e quelli che regolano automaticamente la sistemazione definitiva, costituiscono un tale enorme carico per un sottomarino, che questo deve rinunziare ad ogni altro armamento, deve sacrificare alle mine velocità e difesa. È una nave terribile e vulnerabile; ha di che far saltare una città e deve aver paura di una barca; è come quei flaccidi e sanguinari mostri del mare che un colpo di temperino sfianca ed uccide. Una bestia spaventosa e miserabile.

Nelle tenebre soltanto emerge e naviga, adoperando il motore a nafta che, mentre spinge la nave, carica gli accumulatori e vi condensa le energie per il motore elettrico. Va lungo le coste, attento, pronto a tuffarsi. Di giorno si affonda, scompare, abbassa un’àncora per non essere trascinato dalle correnti, e aspetta immobile, fra due acque, a dieci, a quindici metri dalla superfice, ascoltando al microfono il passaggio dei battelli. Tornata la sera, se tutto è quieto, viene a galla, riprende il viaggio, come un ricercato dalla Giustizia. Può percorrere così sei, settecento miglia, forse più, fino alle vicinanze della mèta prefissa. Qui si immerge e cammina all’elettricità, sfiorando ogni tanto la cresta delle onde col periscopio per guardare, per orizzontarsi fissando alla costa dei punti di riferimento, per sorvegliare la rotta delle navi e calcolarne il sentiero. Quando