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242 lettere dal mare


Attraversate le ultime linee di mine, il piccolo vapore che va alla pesca si anima. I sibili brevi e imperiosi di comando si seguono. Ad ogni trillo è uno scalpiccìo molle di piedi nudi che corrono sul ponte, uno strepito metallico di argani, uno strisciare cupo di cavi di acciaio che si svolgono e vanno ad immergersi con uno sciabottìo nelle onde, a poppa: l’apparecchio della pesca scende in mare.

Non differisce molto da quegli apparecchi della pesca a vapore che sorreggono ed aprono le reti dietro ai chalutiers dei pescatori di aringhe e di merluzzi nei mari nordici. Soltanto, qui mancano le reti. Si va alla pesca delle mine nemiche.

Avanti a tutta forza! Il palpito delle macchine, regolare e poderoso, fa fremere i fianchi neri del battello. Il cavo di rimorchio si tende e vibra. Sull’acqua, dietro, emerge il dorso oscuro e affusolato di grossi galleggianti che guizzano a fior d’acqua come delfini inseguenti la nave in una festosità di spruzzi. La pesca comincia.

L’equipaggio è ora immobile sul ponte e il vento del mattino gonfia le sue camiciole di tela. Nella sua cabina vetrata, il timoniere alla ruota, attento, fermo, guarda la rotta con una fissità statuaria. La testa della vedetta spunta dal bordo della coffa sull’albero, che oscilla lentamente al rollìo come l’asta di un grande metronomo che abbia un uomo per con-