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per dar la mano a baciare al meno grossolano dei Proci. Accetto, vi ho detto, la regola, e non bado se faccia torto alla morale dei giudici di Ulisse; mi basta che onori Penelope. E voi continuate. —

Quel tono di giudichessa dispiaceva maledettamente al conte Attilio, che ci s’inviperiva sempre più.

— Non riuscirete a farmi perdere la calma; — diss’egli, con una asseveranza che era in così evidente contrasto colla sua agitazione. — Son giudice anch’io, e di parecchie cose ho a chiedervi conto. Rammentate, signora, la durezza di vostro padre, quando alle esortazioni del conte Sferralancia ci ricusò un aiuto di denaro, troppo necessario dopo la catastrofe bancaria di Roma, non preveduta da me, nè da più forti di me? Rammentate ancora che per una vostra lettera, e non scritta a vostro padre, il denaro venne prontamente, con celerità telegrafica, e per una somma superiore alla richiesta?

— Rammento benissimo; — rispose pacatamente la contessa. — Ma rammento ancora di aver scritto questa lettera per vostro consiglio, per vostra sollecitazione, per vostra preghiera. E non volevo scriverla io.

— Non volevate.... è giusto, non volevate. E vorreste voi dirmi ora il perchè?

— Non mi pesa di dirvelo; perchè mi pareva un mancar di rispetto a mio padre, mostrando di credere che per renderlo benevolo a sua figlia, e diciamo anzi ai suoi figli, fosse necessario il consiglio, la sollecitazione, la preghiera di un terzo.

— Già, di Zufoletto; — chiosò con accento di amarezza il conte Attilio; — del vostro Zufoletto, il quale fu tanto felice di mandare a volo le cinquanta, anzi lo sessantamila lire del suo.

— Come lo sapete?

— In un modo semplicissimo. Eccovi i due pezzi della ricevuta che vostro padre gli aveva fatta, prima di metterlo alla porta.... via, diciamo più esattamente, prima di lasciarlo partire,