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in nostra balìa, c’è la spada di Damocle. Sapete che cos’è, anzi dirò meglio, che cos’era la spada di Damocle?

Il Bello, confuso com’era, non rispose verbo.

— Ve lo dirò io; — ripigliò il giornalista. — Damocle era un cortigiano di Dionigi il vecchio, tiranno di Siracusa, detto il vecchio perchè fu padre di Dionigi il giovane. Questo Dionigi il vecchio era un tiranno arguto, come potrete sincerarvene dal tiro che fece a Damocle, suo cortigiano, il quale lo andava celebrando per la sua felicità senza pari. E gliela fece provare, la dolcezza del suo vivere; lo mise un’ora al suo posto, sdraiato a mensa su d’un letto magnifico, servito da schiavi attenti ad ogni suo cenno; ma ohimè, con una spada la cui impugnatura era raccomandata per un crine di cavallo alla travatura del soffitto, e la cui punta gli pendeva minacciosa sul capo. Immaginate, Garasso, come stesse d’animo il galantuomo; pur gli convenne tirare innanzi a mangiare, con quelle frutte in aria. Mi avrete capito; la spada di Damocle è sempre sospesa; fatene una, e il crine di cavallo si spezza. Ora andate; io non ho a dirvi più altro. —

In questo mentre, quell’uscio per cui era già venuto Marcello ad afferrare non visto il Garasso, si schiuse da capo, e comparve la Violetta nel vano.

— Era in casa! — esclamò il Bello, turbato da quella veduta improvvisa.

— In casa, sì, — rispose la Violetta, — e ne ho udito di belle!

— Perdonategli! — entrò a dirle sarcasticamente Giuliani, — egli ha fatto il male pel troppo amore che vi porta. Costa così caro, l’amore!

— Oh, io non voglio saperne a nessun prezzo, del suo; non voglio avere a che fare con uomini della sua risma; se ne vada per dove è venuto.

— Virtù, dove diamine sei venuta a ficcarti! — borbottò tra’ denti il Giuliani.

Quindi, volgendosi al Bello, gli disse:

— Sicchè, Garasso, per questa notte potrete riparare all’ombra amica del talamo.

— Sì, vado! — ringhiò, stringendo i pugni, quell’altro. —

Il Giuliani, per farla finita, lo condusse sull’uscio dell’anticamera.

— Gabrina, — gridò egli, che non sapeva piegar la lingua al nome di Rosa, — Gabrina, fategli lume!

— Non occorre, signor Giuliani, non occorre; — disse