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ceva scintillare co’ suoi raggi i vetri delle finestre; s’intende di quelle che erano chiuse, perchè dove c’erano finestre aperte i raggi entravano senza chieder licenza. E noi che per il nostro ufficio di narratori non dobbiamo chiederne mai, ci metteremo a cavalcioni sopra un raggio di sole, come faceva il fantastico Oberon sui raggi di luna, ed entreremo per una finestra, che in quel giorno, a quell’ora, si ritrovava aperta, a ricevere i tiepidi saluti di un’aria ristoratrice.

La casa in cui dobbiamo far entrare il lettore insieme con noi, era una vecchia casa di tre piani, posta in via Luccoli. Sebbene di modesta apparenza, lasciava intendere com’ella fosse stata la dimora di una di quelle famiglie consolari, la cui nobiltà risaliva più su delle Crociate, descritta a caratteri di buone opere e generosi sentimenti di virtù cittadina nel libro d’oro della storia. Più tardi la lunga consuetudine del potere, il fasto, la magnificenza del vivere, diedero origine a più orgogliosa forma di patriziato, e si fabbricarono i sontuosi palazzi, con le ville principesche. Ma noi, rispettando i palazzi che attestano lo splendido uso delle ricchezze, e i vecchi nomi non indegnamente portati da tardi nepoti, corriamo più volentieri con l’animo alle memorie di Genova popolana, anteponendo i modesti ricordi d’Almèria, di Tolemaide, di Caffa, alle pompose tradizioni del Consiglietto, con la flotta francese innanzi al Molo vecchio, o con le soldatesche del Botta Adorno entro le mura di Genova patrizia.

Le pietre nere riquadrate formavano la base e il primo piano della casa accennata; e la cornice sotto il secondo piano, colla sua fila d’archetti del vecchio stile lombardo, era anch’essa di pietra dello stesso colore, venuta dalle cave di Promontorio. Anticamente la casa aveva posseduti i suoi portici; ma da un pezzo il vano tra le colonne si era rimpicciolito ad usci di botteghe, e le colonne bisognava indovinarle sotto l’intonaco profano di secoli più recenti. Gli eruditi diranno a chi fosse appartenuta quella casa, e per qual filiera di vendite fosse caduta in balìa di un mastro Nicola Ceretti di Molassana1, antico muratore, fattosi ricco più tardi del suo milioncino, e di un figlio unico, il quale, tranne il nome profumato di Arturo e la naturale differenza d’età, era tutto suo padre.

Ma dei Ceretti non dobbiamo darci pensiero per ora. Siamo ai primi di febbraio dell’anno 1857, ed entriamo con un raggio di sole per una finestra al terzo piano della casa in discorso, la qual finestra ci lascia vedere un mondo di cose nella cameretta a cui ella dà il conforto della luce e dell’aria.

  1. Nell’originale "Molasana".