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udienza, che razza di gente bazzicasse in quella stamberga, non sarà male che diciamo alcun che delle rappresentazioni. Il teatro del Forte in gamba era celebre, come il suo padrone, in tutto il popoloso quartiere dei Servi, e in altri circostanti, che gli mandavano ogni sera il loro contingente di spettatori. Colà si recitavano drammi stupendi, come il Guerrin meschino, i Reali di Francia, la Bella Maghelona, Ginevra di Brabante, ossia il Trionfo della virtù, e commedie da sbellicarsi dalle risa, come i Tre gobbi, il Flauto magico, la Serva padrona, ed altre imitazioni di commedie e d’opere buffe dei maggiori teatri, ma sempre, nelle commedie e nei drammi, introducendo per amore o per forza i due personaggi di Barudda e Pippía, senza i quali il dramma non sarebbe stato un dramma, e la commedia non sarebbe stata una commedia, pei frequentatori del teatro. Il Forte in gamba s’era qualche volta arrisicato a calzare il coturno, cioè, intendiamoci, a calzarne i suoi fantocci, rappresentando qualche tragedia, come l’Oreste dell’Alfieri; ma in questo caso Oreste era Barudda, e Pilade, l’amato Pilade, assumeva il nome e le spoglie del collega Pippía.

Chi erano questi personaggi? Oramai s’è indovinato; erano maschere del teatro popolesco di Genova. Ma quello che molti non sapranno ancora, e che bisognerà dire, si è che queste erano, e sono pur tuttavia ignobili maschere, e da non potersi dicevolmente raccomandare ad ogni ragion di lettori.

Barudda, il più notevole dei due, parla continuamente furbesco, e vi accompagna sempre le parole, anzi le sillabe, con suoni sconvenevoli. Gli è un tipo di screanzato. Ha un viso tozzo, avvinato, bitorzoluto, e va quasi sempre in maniche di camicia. Pippía non è altro che un suo scolaro degnissimo; mingherlino, pallido (come il morticino dei vecchi fiorentini) col viso tirato a costa di spatola; va sulle pedate del sozio, quanto a morale, ma in genere non gli contende il privilegio dei suoni anzidetti; del resto parla furbescamente come lui, ma con un vizio di pronunzia che gli fa mettere la lettera Ve dappertutto. Egli, verbigrazia, vi dirà ova in cambio di ora, e per dirvi vengo vi dipanerà un vvvv....engo, da non finirla più.

E questi due personaggi senza legge nè fede, quantunque chiusi nella ristretta cerchia d’un quartiere di Genova, hanno tre o quattro stamberghe per sè, dove attirano quella udienza che abbiam detto, e tutti i curiosi più arrisicati di altre