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la testa a tutti i suoi mattutini capricci, dopo essersi bisticciato a tavola colla sua cara metà e aver misurato una mezza serqua di ceffate alle sue guance carnacciute, se n’è uscito zufolando dal tetto maritale, per andarsene a fumare un mezzo sigaro fuori di Porta Pila, tanto per far giungere l’ora di andare dai Servi, dove avrebbe potuto, all’imbrunire, far l’ambasciata di padre Bonaventura.

Gli stava a cuore di render servizio al gesuita. I lettori che ci hanno seguitato fin qui, sanno che legami corressero tra i due. Bonaventura conosceva tutte le marachelle del Bello, e lo teneva come la biscia all’incanto. Talvolta, poi, quantunque non volesse confessarlo al Collini, gli lasciava cadere di bei contanti tra le mani, in premio de’ suoi servigi, e segnatamente per quest’ultimo gli aveva promesso un largo beveraggio. Su questo faceva assegnamento il Bello, ed anche sulla metà di quelle duemila lire che il gesuita gli aveva a snocciolare per la magna impresa del Guercio.

I denari non duravano molto nelle tasche del Garasso. Contrariamente a quella tal borsa della favola, dove tanti ne toglieva il felice padrone, altrettanti ne germogliavano dal fondo, quella del nostro Adone, più egli ce ne metteva, più sempre era vuota. Laonde, si sarebbe potuto paragonarla a que’ terreni sabbiosi che appaiono asciutti e screpolati mezz’ora dopo il temporale, a cagione del sole che, dardeggiando assiduo dall’alto, li va prosciugando di continuo. E il sole del Bello era la Violetta, quella Violetta che l’aveva stregato, per la quale si metteva sotto i piedi le gioie sacramentali, e torceva gli occhi dalle bellezze stantìe dell’amorosa consorte.

La Violetta era una di quelle donne che non si sa donde siano venute, nè dove vadano a finire; talvolta condotte al male dalla turpe miseria, più spesso dal lusinghevole esempio del lusso delle loro sorelle in Eva; fuorviate qualche volta da Alcibiadi spiantati, presso cui riempiono gl’intervalli (ahi troppo lunghi!) di più superbi amori; più spesso da logori Cresi, che esse consolano della freddezza o del tedio domestico; che poscia, avvezze al mercimonio, passano di mano in mano senza arrossire, come le cartelle del debito pubblico, e, ragguagliate da principio a cento, valgono ottanta da capo, oscillano insomma, oscillano sempre tra il più e il meno, tra il meno e il più, secondo i capricci del caso e la credulità della gente.

Costei ci aveva i suoi trenta suonati; però lasciamo argomentare a voi se non avesse oscillato. Aveva già dato