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deggiava l’insegna del marchese Galeotto, e al grido di «San Giorgio e Carretto» i suoi compagni d’arme muovevano spediti all’assalto.

Ma ohimè, la gioia del Maso non durò che un istante. Dalla parte dello steccato si vide un lampo, anzi una corona di lampi; si udì un rombo, un tuono, uno schianto, che a lui smemorato fece traballare la terra sotto i piedi; e in meno che non si dice fischiò nell’aria una rovina di sassi, battè, saltellò, ruzzolò per la strada, mettendo lo scompiglio nelle prime schiere che si facevano innanzi.

Quasi sarebbe inutile il dire che questo fuoco d’inferno arrestò il corso dei nemici. Molti caddero, l’uno sull’altro, a rinfusa, urlando o gemendo, bestemmiando o pregando, conforme portavano gli umori; altri non ebbero il tempo di raccomandar l’anima a Dio che quella grandine li colse e li sfracellò senza misericordia. Tosto, dai due lati della strada, i balestrieri genovesi a spianar gli archi e scoccar frecce in quella calca disordinata; nè mancarono i balestroni e le briccole, per lanciare dallo steccato sugli assalitori una minutaglia di pietre e verrettoni, così riempiendo gl’intervalli un po’ lunghi, che allora portava la difficoltà della carica, nel tiro delle armi da fuoco.

Poco stante, il Maso, che oramai disperava di tornar salvo tra’ suoi, entrava, col Tanaglino ai fianchi, nello steccato nemico. Colà gli fu dato veder da vicino que’ brutti ordigni, donde tanta maledizione era uscita pur dianzi. Un uomo era là, dietro i pezzi, che agli atti e al contegno pareva il capo di quei ministri del fuoco. Alto di statura, di membra poderose, nero in volto per lo imbratto del sudore e della pol-