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LETTERA TERZA


Sparsasi per Venezia in pochissimo tempo questa faccenda, e mostrata da più di dieci, mossi più che dall’amicizia loro per me dal puro amore della verità, infinita l’ignoranza dello Schiavo e di più la sua bricconesca maniera di procedere, e reso la favola di molti e di molti che gli andavano a ridere sul viso sino in piazza Sammarco e a rallegrarsi corbellevolmente seco del piacere che avevano di conoscerlo, il buon pre Biagio si dispose in qualche modo di rifarsi, e cominciò a ronzare intomo alle botteghe di caffè e a dir male de’ fatti miei, accusandomi fra l’altre cose d’aver io nimicizia col Petrarca, e che io sapeva ben l’arte di canzonare qualche poco in prosa, ma che al suo sonetto non mi sarebbe mai dato l’animo di rispondere, non sapendo io in che consistesse il vero stile bemiesco in cui egli me l’aveva fatto. Oh povero Bemi, oh il bel seguace che tu hai! Ahi, ahi, ahi, ahi! e quel fusto di quel suo Zanettino, con quella sua vocina piccina e tenerina, anch’egli andava dicendo: — Eh! sono cicale, cicale, e la vogliono pigliare col molto reverendo mio signor maestro, e non si ricordano ch’egli è una bestia quando e’ si caccia fra le dita quella penna e ch’e’ comincia a scrivere. Dio ne scampi i cani, quand’e’si fa a schiccherar carta, che de’ sonetti ne fa quaranta il giorno, e tutti con quattrocento versi di coda. Si alla fé, eh ’e’ li fa e li sa fare; e quello ch’e’fece di critica al Baretti, io sono stato testimonio di -ista che lo fece in men che non si dice amen, e poi io lo trascrissi di mia mano insieme con quello del Baretti, e poi li mandammo in una lettera ad un amico lontano da Venezia, e lo pregammo di mettere quella lettera alla posta, ed il Baretti se l’ha avuta. Ed appena l’ebbe, non so come diavol mai abbia saputo fare, è venuto francamente da Menegazzo a canzonare il molto reverendo signor maestro, e parlava tanto chiaro che sin io m’accorsi che parlava