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settimana, il sommo gaudio di far arricciare il pelo in capo a ciascheduno. Domandane la Senna, il Danubbio, il Boristene; anzi pure il Senegambia, il Sanlorenzo, il Gange e quant’altri fiumi vanno a perdersi nel vastissimo seno d’Anfitrite. Tutti sono pronti e parati a giurare sulle loro prolisse barbe che il commercio di quell’isola poco mancò non si portasse viale stesse loro arene. — Ahi, Inghilterra mia, che, quando non t’avevi commercio nessuno, somministrasti tanti begli argomenti di tragedia al tuo poeta! Quale fu l’effetto di quel riboccante commercio, che ti rese atta pur ieri a menare quelle mazzate si terribili a chi t’invidiava e t’odiava! Ahi, don Teofilo Mauro, venitevene a Londra, se volete capire il significato di quella capricciosa divisa, che un nostro stampatore metteva in fronte a’ suoi libri! Gli è in Londra che vedrete i pellicani del commercio squarciare il petto alla madre per succiarle tutto il sangue! Gl’inglesi l’hanno sino nell’almanacco loro: che «dal commercio nasce la ricchezza, dalla ricchezza l’ozio, dall’ozio le due brutte gemelle: discordia e povertá». Ma quale d’essi bada agli almanacchi? Nessuno. E’ vanno tutti alla scuola, quando fanciulli, e studiano Orazio e n’hanno molte edizioni; ma in ognuna manca quel verso: Quod satis est cui contingit, nihil amplius optet. Don Teofilo Mauro, voi v’avete que’ be’ poponi appiè di quel vostro poggio esposto a solatio. Deh, non ne fate commercio, ma serbatene qualche paio per me, che verrò tosto a passare qualche di con voi. Ce li mangeremo col sale in questi giorni caldi. Stateve sano a tutta possa.