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LETTERA TRENTESIMA

di Pompeo Neri a don Teofilo Mauri

[Non v’è violenza, barbarie o tirannia che i popoli non si credali lecita, sempre che si tratti di quell’ immensa, di quell’ ineffabile, di quella sommissima quintessenza d’ogni bene chiamata il «commercio».] Apri a caso un libro di questi moderni, e leggi. Scommetto non sei giunto al fine della pagina, che il vocabolo «commercio» ti dá negli occhi. Drizza gli orecchi, e bada. Di che si favella qui da questa gente? Di commercio. E qua da quest’altra? Di commercio pure. Quale fu la causa potentissima di questa guerra? Il commercio. Qual è l’ostacolo che piú remora la conchiusione delle paci attualmente trattate? Il commercio. Per dilatare il commercio s’assembrano tuttora i piú numerosi eserciti; per proteggere il commercio s’armano di continuo le flotte piú numerose. S’appianano i monti, si colmano le valli, si disalveano i fiumi, s’incanalano i torrenti, si seccano i laghi, si congiungono i mari. E perché? Per agevolare il commercio. Chi s’ha un porto in una qualche parte d’un suo lido, si giudica saggio quanto il re Sobrino, se può far fiorire in quello il commercio; e chi non l’ha, se ne forma uno a forza di moli e di palafitte, onde aver anch’esso la sua porzione di commercio. Che fa il filosofo nella libreria? Stassi assestando un nuovo sistema di commercio. Che fa l’astronomo nella specula? Studia la via piú breve ad una latitudine rimota, onde mandarvi le navi piú sollecitamente a fare il commercio. Che fa il naturalista quando considera la terra? Cerca se v’ha cosa, sopra o sotto la superficie d’essa, onde accrescere i capitali del commercio. Il commercio è lo scopo a cui ogni sovrano pone la mira; il commercio è l’asse intorno a cui s’aggirano le cure delle repubbliche; il commercio è il centro a cui tende tutta la sagacitá d’ogni politico, tutto l’indagare d’ogni statista, tutto il fitto meditare di chiunque s’ha una qualche parte,