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ogni disgrazia? che non si commettesse in quella nessuna ingiustizia? che non le toccasse il minimo minimissimo male? Niuna faccenda umana, Tabasso mio, può andare quaggiú con quella esatta misura e puntualitá che si dovrebbe, perché tutte le umane faccende sono menate e maneggiate dagli uomini e non dagli angioli. Se volete un paese nel quale ciascuno ha il suo dovuto, andatevene lassú in quello che chiamano «il paradiso». Gli è colá, per quanto mi vien detto da gente che v’è stata, gli è colá che non si fanno ingiustizie mai; gli è colá dove non v’è disgrazia d’alcun colore, non v’è male di veruna fatta. Ma quaggiú, nel mondo, o che vi stiate di qua dall’ Alpi o che ve n’andiate oltremonti ed oltremare, qualche cosa un po’ di schimbescio bisogna sia fatta di tanto in tanto in ogni luogo, e bisogna che qualcuno s’abbia talora un po’ di piú o un po’ di meno che non si merita; e talora, invece d’aver qualcosa, bisogna che uno si gratti e s’abbia flemma. Il mondo sarebbe troppo bello, se ciascuno che vive in esso non s’avesse un’acca di piú o un’acca di meno del suo dovuto; e se incresce giá tanto ad ognuno il lasciarlo, cattivo com’egli è, pensate che cordoglio, che crepacuore sarebbe il lasciarlo quando fosse buono da ogni canto! Dunque, signor Tabasso, non mi maltrattate piú l’Italia né il secolo; e se non volete assicurarvene, sperate almeno che, quando sarete un po’ piú in lá cogli anni e che v’avrete fama di letterato grande, qualcuno di que’ tanti beni che l’Italia contiene, toccherá pure a voi, e massimamente se tirerete innanzi, come faceste sinora, a vivere nella morigeratezza e nella buona fama. Donate a’ miei capelli canuti questa tiritera, signor Tabasso, e non vi rechiate a male queste poche ragioni che ho voluto qui addurre contro l’opinione giovanile vostra. Statevi intanto sano e lieto e abbiatevi un po’ di pazienza, ché anche voi v’avrete un di quel che vi verrá di giustizia. Addio.