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LETTERA DECIMA

di Pietro Paolo Burzio a Giambattista Pelolio

[Non ci diamo affanno soverchio de’ mali che vengono a bistrattarci, e confortiamoci godendo i nostri pochi e piccoli beni e confrontando la condizione nostra con quella d’altri piu infelici.] Cosi va questo mondaccio, caro il mio signor Pelolio! Giungere sano e salvo in patria dopo una lunga peregrinazione per l’Europa in busca di scienza; ottenere migliaia di mirallegri e di bentornati da’ parenti e dagli amici; essere immediate collocato in un impiego onorevole, proficuo e lungamente desiderato, testimonio vivissimo del propio valore non meno che dell’amorevolezza altrui; riaprire l’antica ferita nel cuore dell’amata fanciulla e vedersi poche settimane distante dal farsela mogliera: chi mò, signor Pelolio, chi non avrebbe invidiata la sua bella sorte? Dov’è l’uomo che non avesse voluto essere ne’ panni suoi? Ma ecco che viene quella squarquoia della morte, e le porta via il padre, presta come un baleno: ed ecco avvelenata la coppa d’oro del mio signor Pelolio! Ecco eh’ e’ non può piú beatificare l’onorato vecchio, e quello appunto che sopra tutti gli altri viventi desiderava di beatificare, con renderlo spettatore di tanti raddoppiati suoi beni! Ecco in sostanza, ecco, non dico distrutto ma scosso dalle fondamenta quell’edifizio di felicitá che s’erano penati piú e piú anni in ergerlo, onde venisse ad esser poi sodo e durevole! Oh, amico mio caro, io entro cogli occhi dell’anima in questo grave suo sconcio, in questo affanno suo gravissimo, e comprendo tutta l’amaritudine da cui Vossignoria si trova di repente riempiuta! Cosi potessero le larghe spalle dell’amicizia mia aiutarla a portare l’enorme peso d’un tanto grave infortunio, d’ una calamitá cosi smisurata!