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un passo, e de’ piú lunghi, le’ piú giganteschi, verso quel tempio di Bontá, del quale ho fiducia che sarete un giorno la principale sacerdotessa. — Ma, Ferrigo, che fai tu ora in quella Ferrara? Dimmelo minutamente. — Oimè, Angioletta, che volete ch’io vi ci faccia, privo della dolce compagnia vostra? Intanto che voi siete forse affaccendatissima nel porre a profitto gli ultimi giorni di carnovale, notando le varie pazzie delle varie maschere che s’aggirano senza un buon perché nella piazza di Sammarco, io me ne sto le ore e le ore a sedere vicino al fuoco in questa osteria, e in una positura cosi maninconosa e meditativa, che un pittore obbligato a fare il ritratto d’un povero cappuccino, che pensi alla morte o a farsi eleggere provinciale dell’ordine, non lo dipignerebbe in altra attitudine. L’affare che m’ha condotto qui non sará spedito con quella prestezza ch’io mi prometteva, perché questo Cardinal legato non ha peranco ricevute le risposte che dovevano venir di Roma e non sa dirmi quando le verranno. Se tardano ancora due settimane, io sono risoluto di tornarmene a Venezia, vale a dire di tornarmene a voi; perché senza di voi la vita mi riesce, non dirò insipida, ma grave. Qui non conosco persona; qui non ho che fare. Al peggio de’ peggi tornerò poi qui fra due mesi, e cosi fuggirò il pericolo di morirmi della noia, che non può non abitare in ogni luogo dove non sia la mia soave Angioletta Gozzi. Scrivetemi e state sana.