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que’ balli alla parigina, ne’ quali due leggiadri amanti si vanno a vicenda mettendo in capo le grillande di rose e d’amaranti. Io, che sapevo in qual continuo ripentaglio quel tuo cieco émpito d’affetto poneva la mia gloria epistolare, mi venni quanto piú potevo armando ogni mia caccabaldola di parole diligentemente abburattate, sforzandomi co’ pensieri e collo stile di non far vergogna al mio Michelotti; e sallo il cielo quante volte m’ho messo il cervello sotto il torchio e spremutolo del meglio sugo che in quello m’avevo! Zitto, che te lo vo’ dire in allegoria. Io sapevo in quale steccato mi toccava combattere, conoscevo i giudici della giostra e volevo non far disonore alla mia bella, vale a dire al mio Michelotti; e cosi ho combattuto assai volte come se m’avessi avuto a fronte i primi primissimi paladini di Carlo magno. Ma quel perpetuo correr lancia, quella incessante necessitá di starmi sempre fermo in arcione per non tombolare della sella come un Martano, è una cosa che alla fin fine riesce di troppa fatica; sicché non la voglio piú fare. L’intendi tu quest’allegoria, can malfusso? Ombé, io te la dico risolutamente ch’io non voglio d’oggi in lá starmi piú sulle squisitissime bellezze; cioè non voglio piú scriverti d’oggi in lá se non delle cose semplici, delle cose alla buona, anzi pure delle cose affatto sciocche, affatto senza sostanza, quel che viene viene. Fa’ dunque d’oggi in lá di non andar piú a leggere in quel crocchio le pappolate che t’anderò tratto tratto scarabocchiando; o ch’io la farò finita con dell’epistole piú brevi che non le scriveva il vecchio Catone, che tu sai quanto era stringato e parco d’inchiostro. Che farai tu, poveruomo, quando m’avrai messo al punto di non ti scrivere se non due, tre o quattro righe al piú al piú ogni settimana? Dunque accònciati alla mia voglia e fa’ di non leggere piú a quella brigata veruna delle mie lettere, sinattanto almeno ch’io non ti scrivo d’aver operata alcuna cosa stranamente maravigliosa: d’avere, esempligrazia, ammazzata qualche tigre o qualche pantera, sbudellata qualche giraffa o qualche lionfante, mangiato vivo qualche porco cignale o qualche drago con l’ale. G. Bar etti, Scelta di lettere familiari. I*