Pagina:Baretti - La scelta delle lettere familiari, 1912 - BEIC 1749851.djvu/238

delle quali sono intagliate con molta sottigliezza, e rappresentano dèi e uomini e donne e animali e altre cose, che non si finirebbe mai di dire. Ma che ciancio io delle finte gemme o gioie di tal fatta, se tutti i libri degli antiquari ne son pieni? Basta dire che alla lunga l’uso de’ vetri trasparentissimi prevalse finalmente in guisa fra i romani piú sfarzosi, che non vollero piú bere se non in quelli, esiliando dalle loro credenze le tazze d’oro e d’argento; e benché v’avesse nella loro cittá delle fornaci in molta copia, pure i loro piú be’ vetri e piú pregiati venivano loro d’Alessandria, dove pare che l’arte del lavorarli sia stata per un assai lungo tempo raffinata al maggior segno. Vedete se i romani spinsero ben in lá il lusso e la dilicatezza in fatto di vetro, che s’ornavano perfino le case loro, inventando quella cosa a cui si dá il nome di «mosaico», la quale, come sapete, si forma d’infiniti pezzuoli di vetro variamente colorati ed accozzati in modo che vengano a rappresentare ogni sorta d’oggetti come fa la pittura. Il primo che fece uso di questo mosaico si vuole fosse un edile nominato Marco Emilio Scauro, figlio d’un console dello stesso nome. Costui fabbricò a propie spese un teatro assai vasto ed incrostonne le mura di dentro con de’ vetri mosaicamente uniti; e Marco Agrippa, tanto caro ad Ottavio, mostrò anch’egli la sua magnificenza quando ricopri di mosaico i pavimenti delle terme che fece fabbricare per uso del popolo. Bisogna però dire come il mosaico nel teatro di Scauro e nelle terme d’ Agrippa non era se non un lavorio fatto come chi dicesse a scacchi; ma l’arte s’andò rendendo piú perfetta di mano in mano, e sali a tant’ altezza, che piú d’un Cesare potette poi ornare le mura e i pavimenti e perfino i soffitti delle propie stanze con un mosaico che rappresentava oggetti d’ogni genere, né piú né meno, come dissi, di quel che si facciano le pitture. Né le invasioni de’ barbari, che terminarono colla rovina di Roma e dell’ imperio, potettero far si che l’arte del comporre e del lavorare i vetri si perdesse; poiché Piero Damiano, che visse nell’undecimo secolo, scrivendo ad un cert’uomo dabbene chiamato Odilone, dice come «all’ imperadore Arrigo primo fu mandato