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Il comico Aristofane fa motto del vetro nella sua commedia delle Nuvole, usando il vocabolo «hyalus», che s’interpreta «vetro»; e Alessandro Afrodiseo, recando una sua similitudine, adopera queste precise parole: «A quella guisa che la vaghezza d’un colore si scorge per lo vetro...». Il faceto Luciano in uno de’ suoi Dialoghi descrive certi ciotoloni di vetro usati da’ valorosi trincatori de’ suoi tempi; e Plutarco nel suo Simposio non soltanto mentova i bicchieri di vetro, ma dice che il legno di tamarisco è il migliore si possa adoperare in una fornace per ben cuocere il vetro. A che recare altri esempli? Non bastano questi per mostrare che il vetro era notissimo a’ greci? Pure, per far pompa d’erudizione, io le voglio soggiungere, signor Baldasarre, come un certo Teofrasto, che visse piú di mill’anni innanzi al vecchio Plinio, racconta della sabbia d’un fiume vicino a Tolemaide, che bastava da se sola a formare il vetro. E lo stesso Plinio, parlando di quella sabbia medesima, dice che per fare del vetro superlativamente buono era mestiero congiungerla col minerale chiamato «pietra magnetica» di Cipro. Essendo il vetro notissimo a’ greci, non è gran fatto s’egli era pur noto a’ romani. Vogliono le storie che un certo vetraio proponesse a Tiberio di rendere il vetro malleabile, e che Tiberio per ricompensa gli facesse mozzar il capo, se crediamo a Petronio Arbitro, e che gli facesse soltanto demolire la fornace, se diamo fede a Plinio. Perché questa crudeltá a ufo? Indovinilo Grillo. Checché quel pazzo imperadore si facesse con quel vetraio, la cosa è scritta pe’ boccali, come si suol dire, che i signoracci di Roma, non contenti di bere in vasi d’oro e d’argento e in tazze di porcellana (le quali, per parentesi, venivano recate loro pel mar Rosso e per l’Egitto da un paese che non conoscevano), volevano pur bere in vasi di vetro, come ne fanno fede Marziale e cent’altri galantuomini. E nel tempo di Claudio Nerone l’arte del fare il vetro s’era condotta a tant’alto segno, che certi lor bicchieri a due manichi si vendevano cencinquanta zecchini ciascuno, vale a dire il valsente di zecchini cencinquanta; la qual somma di danaro, considerando come l’oro era piú scarso a que’ tempi che non è in oggi, viene ad essere spaventevole.