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desiderio, comunicatomi dal prefato padre Boscovich, cioè a ricogliervi a gara con molt’ altri quante piú notizie mi sia possibile, onde contribuire anch’io il mio miccino ad impinguare quelle vostre Vite con quella sorte di fatti e d’aneddoti, che sogliono in oggi chiamarsi col vezzoso vocabolo francese d’«interessanti», e a cosi procacciare di scemarvi un poco di quella spropositata fatica di schiena che Vostra Eminenza dovrá pur fare, spogliando le centinaia e le migliaia di libri per condurre ad un felice fine la vostra biografica fattura. Ma, signor cardinale mio stimatissimo, con una persona quale è Vostra Eminenza, cioè a dire tutta puntigliosa e tutta rigidissima in fatto di stile, di che stile mi servirò io nello stendere quelle stesse notizie che verrò di mano in mano spicciolando per trasmettervele? di quello che oggidí s’usa dai nostri goffi Nivildi Amarinzi e dai nostri stupidissimi Cimanti Miceni, tutto quanto sguaiatamente ricamato di vocaboli e di frasi franciose? Certo no, perché io non so scrivere in altra lingua che nella nostra, né m’è bastata la vista giammai di sconciarla e d’ imbruttirla con coteste ch’io chiamo galliche maladizioni anzi che bellezze straniere. Servirommi dunque di quell’altro, puro e pretto, di messer Giovanni Boccaccio da Certaldo, che tanti e tanti lodano a cielo sulla parola d’ infiniti nostri accademici della Crusca? Né tampoco, in fede mia! Conciossiacosaché il Boccaccio va bene oggidí imitarlo quando si scrivano delle dicerie e delle cicalate da recitarsi per baia in tempo di carnovale nella congrega degli Apatisti ( r ), o qualche tiritera che puta dell’antico per muovere le brigate a riso; ma quando si vogliano scrivere delle cose filosofiche o de’ filosofi, come, verbigrazia, m’accingo adesso a far io in servigio vostro, lo stile di messer Boccaccio è propio una peste che va fuggita quanto piú si possa da chi s’ha del sale in zucca. Oltre di che io non saprei nemmanco da qual capo farmi per adoperare quel suo linguaggio co’ verbi in punta a’ periodi, se me ne rodessi le nocca e se mi stillassi anche il (x) Specie d’accademia stabilita in Firenze, nella quale si recitano il carnovale delle cose facete.