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LETTERA TRENTADUESIMA

di Giuseppe Benvenuti al conte Gianmarta Mazzuchelli

[La lode di «celebre», «impareggiabile», «immortale» è stata cosi abusata tra di loro dagl’ italiani in genere e dai poeti arcadi in ispecie, che una persona di buon senso s’ indigna quando si vegga lodata con quegli aggettivi.] E tu vuoi, anima bella, ch’io mi bea su que’ tre grandi epitetoni datimi dal tuo compare di Verona? E tu vuoi ch’io mi creda celebre, impareggiabile, immortale? E tu vuoi che la mia modestia imbagasci a cosi gran segno? Santi numi del cielo! se fu voler vostro ch’io m’avessi un po’ di modestia, deh, non vogliate permettere sia violata oggi da que’ tre sfrontati epiteti! Io celebre? io impareggiabile? io immortale? Oh, il bel celebre ch’io mi sono, per cominciar dal «celebre»! V’ hanno forse dieci persone in quella Verona del tuo compare, che conoscono il mio nome; ve n’ha dieci nel tuo Milano, che fanno venti; e cinque in Torino, che fanno venticinque; e venticinqu’ altre in tutto il resto del Piemonte e della Lombardia, dandoti anche giunta tutta la Savoia di lá e tutto il Mantovano di qua, che fanno cinquanta. Cinquant’ altre tra Bologna, Modona, Ferrara, Padova, Venezia e paesi intermediati, che fanno cento. Cento in tutta Toscana, giunta il Genovesato, che fanno dugento. Pogniamo un centinaio qui nella mia Roma, e un altro centinaio in Napoli, che vengono a far quattrocento. Una trentina in tutto il resto d’Italia, inchiusa la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, con tutte l’ isolette e scogli adiacenti, che fanno quattrocentrenta. Allarghiamo quanto si può la mano, e diciamo che il mio nome è pur conosciuto da altre settanta persone sparse per la Francia, per la Spagna, per l’Olanda, per l’Inghilterra, per la Germania, anzi, onde sbrigarla piú presto, per tutto il globo terraqueo: che fanno il numero tondo tondo di cinquecento persone. E tu vuoi, anima dolce, che un galantuomo amico tuo, a malapena