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LETTERA VENTISETTESIMA

di Tommaso Filipponi a Giuseppantonio Nuvoli

[Invito.]

Ho caro siate guerito del mal di denti, facendovene strappar uno: ma, per amor di Dio, non fate cosi trentadue volte, ché il ridurvi a pure pappe vi verrebbe finalmente a noia. Se verrete a starvi meco una buona parte di quest’autunno, siate certo che non solo farò di scacciare la tristezza, ma d’essere invasato dall’allegria. Orsú, quando partirete? quest’altra settimana? quest ’altro mese? Come siete lungo in ogni vostra faccenda! Via: ficcatevi in quel vostro calessino, al ricevere di questa, e fate spronare alla volta mia senza menarmi piú per l’aia. Ci vuol egli tanto a far cosi? Venendo subitissimo, non sarò piú ipocondriaco, ve lo torno a dire; anzi mi porrò a saltar per casa come una monna cotta e vi canterò delle canzoni matte e vi farò delle stravaganze d’ogni colore; e il trambusto e il frastuono sará di tal maniera, che i vicini dubiteranno se casa mia sia tuttora casa mia o se conversa in uno spedale di pazzi. Addio, Giuseppantonio; ma venite e non vi fate tirar gli orecchi davvantaggio. M’avete capito? G. Baretti, Scelta di lettere familiari. 8