gli altri errori vennero da quello altro che si suol chiamare
col nome nuovo di «municipalismo», ma che comprende in sé i due
vizi antichi, vergognosi, capitali e sempre fatali, della superbia
e dell’invidia, superbia d’ogni menomo merito, invidia degli stessi
piú evidenti benefattori. Milano impazzita di sue cinque giornate,
trattò in grida, in atti, in fatti, i piemontesi accorsi due dí dopo,
non come liberatori che erano stati forse veramente minacciando giá
dal Ticino, e non come almeno aiuti necessari, ma come tardivi,
inutili, usurpatori di vittoria di giá compiuta e sicura; trattò
il re, com’ebbe a dire egli stesso, a quel modo che la repubblica
francese del 1792 trattava i suoi generali. Il governo provvisorio
presieduto da quel Casati che come podestá avea giá fatta la lunga e
bella guerra legale, ma raccolto, com’è naturale, d’ogni frazione,
d’ogni tinta del partito liberale, dalle corti alle sètte, dai semplici
riformisti ai repubblicani rossi o comunisti, diviso, discorde in sé,
fu impotentissimo a dominar le discordie dell’opinione, della stampa,
delle sètte, de’ circoli, della piazza. Credette comporle con questo
mezzo termine: proporre al voto universale la fusione (parola nuova
o male applicata e che rimane infausta) di Lombardia a Piemonte, con
questo patto orgoglioso che del nome, delle memorie, delle leggi, dello
statuto stesso del vecchio e or ora rinnovato Piemonte non rimanesse,
salvo la casa di Savoia, nulla di conservato se non sancito e rifatto
da una Costituente lombardo-piemontese. E Piemonte, re, Camere,
principi, ministri, grandi, popolani, intendenti o non intendenti,
ripugnanti o non ripugnanti a quello stoltissimo fra gli errori di
qualunque rivoluzione incipiente, tutti s’affrettarono d’accettare,
per non turbare la guerra d’indipendenza, dico dell’indipendenza
non piemontese, ma lombarda. E nota che tutto ciò si faceva a mezzo
maggio, tra le due vittorie piemontesi di Pastrengo e Goito. — Non
dico altro. Nemmeno le condizioni aggiunte, la coda di quella fusione
parimente imposta, parimente accettata. A petto di questo furon nulla
tutti gli altri errori d’allora, quello stesso errore del governo di
rifiutar l’offerta fatta dallo Schnitzer, inviato austriaco, di lasciar
libera Lombardia fino all’Adige; questo