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286 libro sesto

periodi di qualunque nazione, in cui sieno mai progredite piú a un tratto ed insieme tutte le colture. E Dante fu uno degli uomini che sieno mai progrediti piú sopra i propri contemporanei. Nato nel 1265, l’anno della calata di Carlo d’Angiò, cresciuto, educato tra i trionfi della libertá fiorentina e della parte nazionale, e insieme in sull’aurora del poetare italiano, in tempi dunque d’ogni maniera propizi allo svolgersi di suo grande ingegno; preso di gentile e puro amore fin dall’adolescenza, infelice in esso fin dalla gioventú, provata poesia, ideato e lasciato il poema giovanile, provata la vita pubblica, e respinto da essa e di sua cittá per quella moderazione di opinioni, per quell’ardenza nel proseguirle che tutti gli animi un po’ distinti sentono, che i volgari di qua e di lá, di su e di giú non capiscono e non perdonano; si rivolse, esulando, allo scrivere, all’idea giovanile, a quel poema di religione, di filosofia, di politica e di amore, il quale, simile nella forma a parecchi contemporanei, supera forse in sublimitá e vigor di pensieri, agguaglia per certo in tenerezza e splendor di poesia ed in proprietá di espressioni i piú belli delle piú colte etá antiche o moderne; ed in tale opera, e nell’esiglio, perseverò poi vent’anni fino alla morte [1321]. Noi non celammo l’error politico di Dante, che fu di lasciare la propria parte buona e nazionale perché si guastava in esagerata, straniera e sciocca, di rivolgersi per ira alla parte contraria ed essenzialmente straniera; ed aggiungeremo qui ch’ei pose il colmo a tale errore, protestando di continuar nella moderazione, affettando comune disprezzo alle due parti, mentre rivolgevasi a propugnare l’imperio, e nel poema, e in quel suo libro, del resto mediocre, Della monarchia. Ma ciò posto ed eccettuato francamente, ed eccettuate forse alcune vendette personali terribilmente fatte con sue parole immortali, Dante e il poema suo restan pure l’uomo e il libro incontrastabilmente piú virili ed austeri della nostra letteratura: virile l’uomo, nel saper sopportare le pubbliche, le segrete miserie dell’esiglio, nel non saper sopportare né le insolenti protezioni delle corti né le insolentissime grazie di sua cittá, nel sapere dalla vita attiva, che pur anteponeva ma gli era negata, passare alacre alla