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dei comuni 209


12. Il secondo periodo della presente etá [1183-1263]. Governo delle cittá. — Dalla pace di Costanza al finir degli Svevi o Ghibellini secondi, corre una seconda parte della etá dei comuni. I quali noi continueremo a chiamare cosí sempre, e non come fan altri, «repubbliche»; perché questo nome ci sembra implicare governo di tutta la cosa pubblica, sovranitá piena, indipendenza; e che, salvo Venezia, tutte le cittá italiane riconobber sempre come sovrano l’imperatore e re straniero, e come privilegio i governi, i diritti propri. Oltreché, queste improvide cittá non si divisero giá solamente, quasi repubbliche, in quelle due parti infelicissime ma forse inevitabili de’ grandi e de’ piccoli, de’ nobili e de’ plebei; ma, come veri comuni dipendenti, in quelle anche piú infelici pro e contro al signore straniero. Questa divisione propria de’ comuni fu quella che accrebbe, inasprí la repubblicana; perché i grandi, i nobili, piú o meno signori di castella fuor delle mura, o di «alberghi» o case forti addentro, or per memoria de’ lor bei tempi feodali, or per isperanza di crescere a signori infeodati delle cittá stesse, ad ogni modo, s’accostarono piú facilmente alla parte imperiale o straniera, mentre i popolani piú facilmente alla parte cittadina o d’indipendenza; ondeché questi non ebber nulla mai di piú caro, di piú pressante che cacciar quelli del tutto; molto piú che non si sia fatto in altre repubbliche, e che non sarebbesi fatto in quelle se fossero state repubbliche vere. E questo inasprimento delle due parti inevitabili, fu giá un primo gran male senza dubbio. Ma fu secondo, che, cacciati i primi nobili, e sottentrati al posto loro i popolani grassi, diventando principali, nobili essi, essi pure furono invidiati, prepotenti, cacciati né piú né meno. E cosí dopo questi secondi, i terzi, i quarti interminabilmente. Perciocché, insomma, di nobili o grandi ne son sempre dappertutto; e il popolo che ne caccia, non li caccia ma li muta; ed ogni mutazione non fa, oltre il mal dell’invidia, se non diminuire le forze morali, materiali e personali delle cittá. Né son io che ciò dica a difesa d’una classe non generosamente forse, certo non utilmente, assalita da alcuni popolani de’ nostri dí; fu osservato e detto incominciando da Dante e da’ primi uomini

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