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180 | satira quarta. |
Perchè, s’anco di questo mi lamento,
Tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto,
6O ch’io son di natura un rozzon lento:
Senza molto pensar, dirò di botto,
Che un peso e l’altro ugualmente mi spiace,
9E fôra meglio a nessun esser sotto.
Dimmi or, c’ho rotto il dôsso, e, se ’l ti piace,
Dimmi ch’io sia una rôzza, e dimmi peggio;
12In somma, esser non so se non verace.
Che s’al mio genitor, tosto ch’a Reggio
Daria mi partorì, facevo il giuoco
15Che fe Saturno al suo nell’alto seggio;1
Sì che di me sol fosse questo poco,
Nello qual dieci, tra frati e sirocchie,2
18È bisognato che tutti abbian loco;
La pazzía non avrei delle ranocchie
Fatta già mai, d’ir procacciando a cui
21Scoprirmi il capo e piegar le ginocchie.
Ma poi che figliuolo unico non fui,
Nè mai fu troppo a’ miei Mercurio amico,
24E viver son sforzato a spese altrui;
Meglio è, s’appresso il Duca mi nutrico,
Che andare a questo e a quel dell’umil volgo
27Accattandomi il pan come mendico.
So ben che dal parer dei più mi tolgo,
Che ’l stare in corte stimano grandezza;
30Ch’io pel contrario a servitù rivolgo.
Stíaci volentier, dunque, chi l’apprezza:
Fuor n’uscirò ben io, se un dì il figliuolo
33Di Maja vorrà usarmi gentilezza.
Non si adatta una sella un basto solo
Ad ogni dosso: ad un non par che l’abbia,
36All’altro stringe e preme e gli dà duolo.
Mal può durare il rosignuolo in gabbia;
Più vi sta il cardellino e più il fanello;
39La rondine in un dì vi muor di rabbia.
Chi brama onor di sprone o di cappello,
Serva re, duca, cardinale o papa:
42Io no, che poco curo questo e quello.