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canto quarto. 89


41 Quei che, per nuovi successor, men cari
Le vengono, muta ella in varie forme;
Ma quei che se ne fuggon, che son rari,
Sì come esserne un tu credo di apporme,
Quando giunger li può negli ampli mari
(Però che mai non ne abbandona l’orme),
Li caccia in ventre a quest’orribil pesce,
D’onde mai vivo o morto alcun non esce.

42 Le Fate hanno tra lor tutta partita
E l’abitata e la deserta terra:
L’una nell’Indo può, l’altra nel Scita,
Questa può in Spagna e quella in Inghilterra;
E nell’altrui ciascuna è proibita
Di metter mano, ed è punita chi erra:
Ma comune fra lor tutto il mare hanno,
E pônno a chi lor par quivi far danno.

43 Tu vederai qua giù, scendendo al basso,
Degl’infelici amanti i scuri avelli,
De’ quali è alcun sì antico, che nel sasso
I nomi non si pon legger di quelli.
Qui crespo e curvo, qui debole e lasso
M’ha fatto il tempo, e tutti bianchi i velli;
Che quando venni, a pena uscían dal mento
Com’oro i peli ch’or vedi d’argento.

44 Quanti anni sien non saprei dir, ch’io scesi
In queste d’ogni tempo oscure grotte;
Chè qui nè gli anni annoverar nè i mesi
Nè si può il dì conoscer dalla notte.
Duo vecchi ci trovai, dai quali intesi
Quel da che fûr le mie speranze rotte;
Che più della mia età ci avean consunto,
Ed io li giunsi a seppellire a punto.

45 E mi narrâr che, quando giovinetti
Ci vennero, alcun’altri avean trovati,
Che similmente d’Alcina diletti,
Di poi qui presi e posti erano stati:
Sì che, figliuol, non converrà ch’aspetti
Riveder mai più gli uomini beati,
Ma con noi che tre erâmo, ed ora teco
Siam quattro, starti in questo ventre cieco.

46 Ci rimasi io già solo, e poscia dui,
Poi da venti dì in qua tre fatti eramo,