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la publica strada, dove era de una quercia seca uno gran tronco reversato in terra, quello coperto de tapeti, e alcuni altri destesi sopra l’erba, ivi la nobilissima compagnia, cioè chi sopra l’ornato Asonco e chi in terra, a sedere se pose e cum e! magior piacere e dolcezza del mondo. Cusi assettati e repetendo tuttavia alcune cose de le narrate novelle del passato giorno, e chi l’una chi l’altra laudando, uno nostro bolognese doctore illustre, de ingegno prestante, de singular doctrina e de eximi costumi e integritate predito, nominato misser Vincenzo Paliotto, affeczionata tuba di preconi del tuo ducal valore, signor mio caro, per aver, oltra li tuoi clarissimi meriti, nel Studio de la tua gentile e bellissima citá de Ferrara, de preclari ingegni molto copiosa, le lucubrazione del suo ingegno optimamente tractate, dixe: — Per certo li suoni, canti, balli e giochi non sono, a mio iudicio, de tanta dolcezza e piacere a l’umana mente, quanto è il stare in festevoli colloqui fra brigata generosa, come sono le Vostre Excellenzie, destinate in quisti silvestri luochi; ché piú dolce e iocundo solazzo trovare non potevi per fugirc el diurno somno. Unde, per non essere io qui sempre auditore (ché giá a Bologna e altrove ho circa anni trenta publicamente lecto), e per fare intendere a le Vostre Prestanzie che questo vostro novellare m’è stato ed è dolce e iocundissimo, ve voglio narrare una disputazione de tre umane onoranze de alcuni nostri oratori bolognesi, giá facta avanti uno eminentissimo e savio re. La quale, essendo voi pazienti, come spero, ad ascoltare, intenderete cum grandissimo piacere. — E cosí dixe.