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NOVELLA XLVI

L’abbate de Sancto Proculo, mangiando cum li soi monaci lasagne, se scotta la boca; dove l’uno de l’altro se trova ingannato.

Nel mille trecento octanta octo, magnifico conte, spectabili gentilomini e voi vezzose e belle donne, la nostra abbazia de Sancto Proculo, al presente officiata da’ devotissimi religiosi negri de san Benedecto, avendo uno reverendo abbate de la famiglia di Passipoveri, nobilissimo sangue in la cité nostra, nominato raisser don Dionisio, cum alquanti monaci de bona fama, per una grande {>estilenzia fu in quel tempo in Bologna, volendo loro fare el debito suo in confessare li parochiani infermi de tal morbo e quilli di quali avevano cura, advenne, credo come el piú de le volte sòie, che, excepto dui de loro e l’abbate, tutti gli altri morirono. Il nome di quali fu don Domizio e don Martino. Or advenne che,avendoli facto uno venerdí, giorno di passione, il cuoco loro uno buono catino de lasagne cum buono caso gratusato a disenare, trovandose l’abbate nel refectorio a mensa cum quisti dui monaci gli erano restati, non prima li fu portato dínanti per epso cuoco a mensa, che, dando l’odore de le lasagne sotto il naso a l’abbate, li aguzzò in tal modo lo appetito, che subito se ne pose uno bono boccone in boca. Il quale essendo caldo, perché pur allora erano state cavate del caldaio, se scottò in tale maniera, che, se per vergogna non fusse stato e per non dare a li monaci malo exemplo, Laverebbe gettato fuori; ma, sforzandose tenerlo, cominciò per passione a travolgere gli occhi e versare alcuna lacrimetta cum uno certo premere. La qual cosa vedendo don Domizio, e credendo che l’abbate se fusse dato qualche ambascia, per recuperarlo, non avendo li acqua fredda parata, presto, come persona provida, li gettò nel viso megio bichiero de vino bianco dolce, che gli era restato de una suppa che alora avea mangiata, dicendo: — Oimè! patre mio.