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DXLVII

AL GRAN MARCHESE DEL VASTO

Dedica ed invia la Vita di santa Caterina , scusandosi se la sterilitá del soggetto lo abbia costretto a lavorar d’invenzione, e ricorda con rimpianto il defunto Federigo Gonzaga, cui si fatta opera sarebbe stata oltremodo grata. Eccovi, o signore, l’opera che vi ho fatto, non qual pensaste forse ch’io vi facesse, né come avrei voluto farvi, ma nel modo che mi è suto concesso che io vi facci. E, s’avviene che non ci sia alcuno di quegli spiriti con cui desideravo che ella respirasse, scusate me, che, per esser di carne, non posso esplicare i concetti divini. Egli bisogna, a chi vòle che il suo intelletto entri ne le cose di Dio, riempierlo prima di dottrine celesti, acciò possa rendersi capace a poterle esprimere, e dipoi sequestrare e purificar l’anima d’ogni affetto terreno. La qual cosa è dono tanto proprio di coloro che ne han parlato con la lingua de lo Spirito santo, quanto improprio a me, che ho tentato di scriverne con la penna de la fragilitá. Veramente l’ardire, che mi faceva comporre in materia sacra, mi si è converso in timore, conciosiaché tali imprese si debbono ai giusti e non agli erranti. Io tremo solo a pensare come voi, che séte una cosa sublime, un suggetto magnanimo e uno atto fatale, aviate spinto me, ignorante, a dire di quella vergine che amuti si grave stuolo di sapienti. Onde, se voi non trovate la virtú mia, ne la prova che una volta vi séte messo a farne, de la grandezza che io ho trovata la liberalitá vostra ne la esperienza che sempre ne feci, datene la colpa ad Alfonso d’Avolos, il quale ha voluto che io formi un libro intero d’una leggenda che nuli empie un foglio mezzo; talch’io vorrei che la sterilitá di cotale istoria fusse stata imposta a lo studio di qualunche si voglia. Io non dico ciò per quel che altri si crede che mi paia saper piú degli altri, ma per quel che gli altri stimano d’intender