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DLXXXII

A MESSER CLAUDIO TOLOMEI

Oltremodo lieto della lettera scrittagli dal Tolomei e dell’amicizia che questi gli dimostra, ricorda i bei tempi romani, in cui godeva della sua amabile compagnia. Parendomi, o signor mio, che le voci vive del celebre Priscianese portasser con seco maggiore autoritá che non è quella dei miei fogli morti, imposi a la dolcezza de la sua umanitá che vi salutasse in mio nome; il che avendo fatto, lo ringrazio. Benché era forse meglio che egli se ne fosse scordato o che io non gliene avesse imposto; peroché il non ricordarsene egli o il non imporgliene io a voi toglieva la noia de lo scrivermi e a me la temeritá del rispondervi. Ché, si come non è lecito di provocare la riverenza d’uno uomo dotto a mandar lettre a la indegnitá d’una persona ignorante, cosi non è onesto che una persona ignorante indrizzi ciance a uno uomo dotto. Ma, s’aviene che le cortesi e le benigne carte vostre mi abbin voluto mostrare come esse non sono avare né superbe, dico che ciò non accadeva, peroché le vecchie conoscenze non han bisogno di «nuovi testimoni. Come si sia, nel riceverle e nel leggerle ne ho preso piú piacere che se, asceso in cielo, avessi veduto la bellezza de le stelle e la natura del mondo; avenga che la mia mente si esercitò sempre in pensare di esservi in modo cara, che le parole vostre nel ragionar di me fusser cagione che io, oltra il diventarne altèro, gustassi la manna di quelle consolazioni, che i veri affetti de la benivolenzia premono fuor de le viscere di chi ama altri ne la maniera ch’io amo voi. Per la qual cosa confesso che Iddio mi fece dono de la vostra amicizia, accioché gli spiriti, che se ne pascono, avessero non solo da rallegrarsene, ma da gloriarsene ancora. Egli è certo che mi séte impresso di sorte nel pet’o, che vi prepongo a quel poco che mi concede la fortuna c a quel tanto che mi largisce la virtú.