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alzi il piede due dita da terra. Benché io vivo a sua onta; e, se niun l’apprezzò mai poco, ecco ch’io son quello. Ma lascio di parlar di lei, per dire del torto ch’io ho fatto al suo merito e al mio debito, per non aver, con alcune de le carte ch’io scrivo, mai visitato il vescovo di Cesena, uomo adorno di costumi e d’ingegno e a me gran tempo amico e signore. Onde ne ho quella vergogna in me stesso, che suole infiammar colui che si ricorda de la somma che egli deve a chi per propria bontá non ardisce chiedergli la creduta mercede. Ma, perché il confessar l’obligo, che si ha con altri, è un sodisfarlo in parte, accuso la negligcnzia de la mia ingratitudine e, accusandola, prometto di essergli per lo inanzi ciò che egli doveva per lo adietro. Intanto basciatemi Aurialo d’Ascoli, nostro fratello e giocondo spirito de la piacevolezza.

Di Vinezia, il 24 di luglio 1542.

DCCLI

A MESSER SPERONE

Loda la Canace. La povertá del giudizio, che è tanto poco in me che non sa ciò che io mi sia, è suta cagione, onorato fratello, clic il miracolo, che porta in sé la vostra nobile tragedia, non si è conosciuto da me secondo le qualitá dei suoi veri stupori. Bisognaria che la divina armonia di si fatto suono penetrasse ne le orecchie celesti del sopraumano Fortunio, peroché egli piú che altro è sufficiente a raccórre ciascuna parte di lei ne la somma de le sue debite lodi. È vero ch’io veggo l’altezza de lo stile, la terribilitá de la invenzione, la gravitá de le sentenzie, la eleganzia dei parlari, la novitá de le similitudini, la miseria dei casi, il terrore dei successi e la compassione dei cori; la veggo, dico, in quanto comporta la debolezza del mio intendere e non come è il merito di si famose fatiche. Ecco: voi esprimete con si breve facilitá i concetti che ci risplendono, che è