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il signor Giovanni de’ Medici fino al letto, alora che il morso del cenghiale, che vi feri cacciando, vi ci facea languire. Degli altri conti non parlo, perché ne potete far fede a voi medesimo. Né ho detto di questo per modo di rimprovero, ma per una certa sodisfazione ch’io piglio ricordandomi che tali sono stati i miei uffizi inverso di voi quali dovevano essere. Ma io meritarci gastigo nonché reprensione, da che vi imputo di ciò che io merito imputazione; imperoché il mancamento nasce da me, ché tanto piú mi è di debito il frequentare a scrivervi quanto di voi son minore. Onde è forza che mi rimettiate la colpa, che cercava macchiarvi, de la mia contumacia, e, rimettendomela, far conto ch’io vi sia quello amico cordiale e quel servitore amorevole che sempre vi fui e che d’ogni ora vi sarò. Benché non solo io sono obligato a cosi dirvi in parole e a cosi esservi in fatti, ma tutte le genti d’Italia, avenga che ella ha fornito d’illustrarsi con lo splendore dei vostri gesti.

Di Vinezia, il 23 di giugno 1542.

DCCXXI

A LA SIGNORA VERONICA GAMBERA

Nel farsi vivo dopo lunghissimo silenzio, promette d’inviare tra pochi giorni il secondo libro delle Lettere e altre due opere giá venute alla luce. Chi non sa che a me tocca esser quello che dee, o donna saputa e grave, rompere il silenzio caduto, è giá un tempo, tra la vostra penna e la mia, non altrimenti che la mia osservanzia e la vostra bontade si fussero ostinate a sgarar l’un l’altro? Cosa che non si converrebbe a la degnitá di voi, che mi séte padrona, né a la bassezza di me, che vi sono servitore. Ma, perché paia, circa ciò, che le ragioni sieno dal canto vostro e dal mio, diamone la colpa a quelle, che altri, per iscusarsi, chiama «occorrenze»; onde vengono inearcate di cosa, che tanto ne sanno, quanto sa la fortuna di ciò che pongono a suo