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sudor proprio, si perché conoscete che il saper di colui, che non sa giovare ad altri, si può chiamare istohizia. Or, perché l’amore ch’io porto a cotali fatiche mi sforzono a riguardare piú tosto al profitto de l’utile che al dovere de l’onesto, vi mando il libro, con arbitrio però che ci poliate e aggiugnere e scemare né piú né meno che a l’altezza del vostro fedel giudizio parrá e di scemarci e di aggiugnerci. Intanto spero di rendervene un di piú fatti che ora non ve ne referisco grazie.

Di Vinezia, il primo di settembre 1541.

DCXXV

A MESSER DINO DI POGGIO

Piange la recente morte di monsignor Giovanni Guidiccioni. Sappiate, o fratello, che, per aver io, nel pensare al caso del singular Giovanni, prima bagnato questo foglio di lagrime che segnatoi d’inchiostro, mi sono accorto del mio esser piú atto a piangerlo che a scriverne. Per la qual cosa voglio lasciar agli occhi l’uffizio che vorria far la penna: imperoché il dolore, che mi afflige, si mostrará tale ne Tacque ch’io verso, quale non può mostrarsi ne le parole ch’io esprimo; conciosiaché il pianto è testimone de la passione, e lo stile indizio del patire. Ed è vera la sentenza, poiché ne Tamaritudine de l’uno si essercitano gli affetti del core e ne la industria de l’altro si affaticano i concetti de la niente ; onde lo studio de la mano dee cedere a l’autoritá del viso, avenga che in quella appare una certa ambizione d’arte, e in questo si vede una propria caritá di natura. Ma, perché le lagrime sono tanto ornamento de la morte de l’amico quanto certezza del duolo di chi lo piange, ecco ch’io onoro il fine di cotanto uomo con la frequenza de Tonde, che, nel passarmi a le viscere, non pur si fanno ispecchi che in sé contengono le imagini dei suoi meriti, ma voci che deplorano l’accidente di lui con si efficace modo,