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séte obligato con ogni affetto di animo e con ogni prestezza di core a notificare al gran contestabile che i danari donatimi da la reai Maestade son suti barrati in su la fiera al giovane, a cui la Sua Eccellenza fece contargli. E, perché un messer Ruberto de Rossi, fiorentin mercante, mi avisa di ciò, egli è tenuto a informarne la giustizia. Benché la vergogna fatta da la fellonia di cotal vincita a la liberalitá del re pareggia il mio danno. Ma, se le leggi galliche seguitano gli ordini de le venete, io riarò ciò che le cene e i desinari, roffiani de le carte e dei dadi, non riguardando la degnitá del donatore, mi han truffato. Quanti impacci ho io dato agli amici per ottenere il dono? quanto l’ho io spettato? e quanto speso per averlo? Io mi son consumato dietro a la speranza di si vii promessa da lo aboccamento di Nizza in qua, e tre volte ho ispedito a la corte per esso; e, quando pensava di goderne, eccolo in bocca ai cani. Veramente simil tristizia è degna dei suoi autori e de la insolenzia de l’anno che corre. La iniquitá de le genti e la malizia dei tempi, rimescolate insieme, battezzono per ghiottone chi non è un ribaldo. E, cominciando da me, io son tenuto di natura empia per esser di volontá ottima, e mal cristiano per aver bene scritto di Cristo; e quegli che scannono il prossimo e che vituperano la religione si esaltano e si adorano. Ma spenga Iddio chi è tale da la faccia de la terra. Intanto adoprisi la nobile Signoria Vostra in mio benefizio; ché, solo per credere che Quella piú che altra mi possa giovare, devete giovarmi. Oltra di ciò, io spero in voi, e, sperandoci, vi saria biasimo che lo sperar fusse vano.

Di Vinezia, il 8 di marzo 1540.