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consente che il mondo gli sia paradiso, i figliuoli angeli e la mogliere beatitudine. E perché non debbo io dir cosi, e cosi creder altri, se cosi è?

Di Venezia, il io d’aprile 1538.

CCCXXXVIII

AL MARCHESE DI MUSSO

Lo conforta a sopportare pazientemente la momentanea prigionia, in cui lo detiene Carlo quinto. Signor Gian Iacobo, in che modo il magnanimo de la vostra natura non sia sottoposto a la malizia de la sorte, lo palesano le cortesie magnifiche, di che séte stato prodigo al mio giovane, e le promessioni larghe de le lettre mandatemi. Certamente la cura de le genti e il cerchio de le ròcche non sono atte a ritener punto di quella grandezza con cui nasceste e con la qual viverete privilegiato da le contentezze de la felicitate. Si che dovete non pur rallegrarvi de l’accidente che vi ha interdetto la libertá, ma, con l’andarne superbo, render grazia a cosi egregia cagione, poiché quello imperadore, che si fa ubbedir dai fati, accenna, col tenervi dove è suto forza che vi faccia porre, che séte cavalier da esser guardato fin da le Maestá dei suoi pari. E ben fanno a farlo, essendo in voi autoritá di presenza, attitudine di membra, vigor di spirto, splendor d’animo, altezza di pensieri e sanitá di consilio; talché è ferma credenza che Italia a questa ora vi salutaria quasi uno dei suoi maggior principi, se la virtú vostra non avesse, con le sue imprese, cercato di tòr riputazione a la Fortuna, che per le apparenze de la sua generositá vi è diventata nimica. Or bastivi che il sospetto, agente de la gelosia degli Stati, non sia proceduto piú oltre. Egli apre gli usci de tutti i petti, commovendo il profondo de le intenzioni, malgrado de chi non ha colpa de le colpe, che suol dare ai piú fedeli e ai meno erranti. Benché l’occorrenza del vostro caso è una fraude del pianeta, che odia la