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le istesse virtú, onde séte prestante d’imperio e di gloria. Ma che trofeo e che statua vi drizzará e consacrará l’universo in premio de l’aver voi saputo con le mani de la liberalitá strangolare l’avarizia? Viva in eterno la memoria di si nobile generositá; duri fino al di novissimo lo essempio di cotal fatto; e da voi, che, per essere stato tanto forte ne le aversitá quanto modesto ne le prosperitadi, vi si può dir beato, imparino i gran maestri a votare gli erari dei tesori propri, riempiendogli dei cori altrui, percioché la liberalitá, virtú compiuta e azzione perfetta, sazia le voglie ingorde ed empie le menti avare. Adunque voi, che non vi appropriate il nome de la virtú, ma coi suoi effetti essercitate la speranza, la ragione e il pensiero, rallegrativi de l’oro innumerabile sparso da la magnificenzia de la naturai cortesia; ché solo quegli, che non dipendono dai benefizi de la fortuna, trovano ogni cosa certa e ogni antiveder durante. Attengasi pure la Maestade Vostra a la bontá, a la prudenzia e a la fortezza solita, se volete che vi si dia il titolo de la felicitá, ne la maniera che vi è suto dato quel de la lode. Intanto la benignitá di Quella prenda il libretto, che le mando, non per grado di me, che l’ho composto, ma per onor de la Vergine, la cui divozione me l’ha fatto comporre.

Di Vinezia, il 4 di ottobre 1539.

CDLXVIII

A MESSER LODOVICO DOLCE

Vita e miracoli di quel gaglioffo di Niccolò Franco. Ridetevi, compare, mentre udite, non in che modo il Franco lordo lacera i buoni, perché in lui non è facultá di poter far ciò, ma come gli vorrebbe lacerare, se la bestialitá de la sua pedantaria fosse da tanto. Il meschino simiglia un cane da ognuno scacciato e a tutti odioso, il quale, adocchiato l’osso che non può mordere, comincia ad abbaiar si forte, che è forza che altri intenda che egli si muor di fame. Io, per me, ho