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LXXIV

A MESSER LUIGI CAVORLINI

Im ringrazia del dono di un anello con una turchese. La maggior vendetta, compare e fratei mio, che possano fare gli offesi da la sorte a la fortuna è il tollerarla, perché i suoi diletti sono le passioni accorate, che altri si piglia mentre ella se gli sfoga sopra. E, se voi la volete far vergognare dei beni che pur vi ha tolti, usate la pazienza ne la carestia de le cose, mostrandole il volto de l’animo; né vi lasciate lusingare da la speranza, perché vien piú tosto quel che non si spera che ciò che si è sperato. E, se pur volete appigliarvi a la speranza, fate che ella sia il giuoco de l’aversitá vostre, e non che le vostre aversitá sieno gli spassi suoi. Ma sopra tutto votatevi a Iddio di ricordarvi di lui ne le prosperitá, come credo che ve ne recordiate ora ne le calamitá, che ben cesseranno, perché in un punto occorre la felicitá di molti, che averien patteggiato col destin loro di viver mediocremente. Lo scettro e le coperte e l’altre gioie, di piú di centomillia ducati di prezzo, sono in mano del Gran turco; e la vertú, con cui ne avete guadagnato la maggior parte, negozia per ciò, ed è sempre per far fede a Sua Maestá che piú infamia le saria il perdere il credito con i mercatanti che la giornata con gli esserciti, perché l’uno sta ne la viltá e l’altro nel caso. Si che destate la solita animositade, e sieno gli avanzi vostri la vita e la vertú che io dico, per cui siete atto a fare quel che non si può fare, non che de le ricchezze. E mi rendo certo che non passará troppo, che averete il modo di mandarmi dei robini e dei diamanti di piú grandezza de la turchese, che, come dono venuto da voi, mi messe in dito il vostro cognato tanto magnanimo quanto misero. E io, che non mi lascio vincer di cortesia, farò memoria de le vostre allegrezze future con iscorno de le doglienze passate. Dí Venezia, il 23 di settembre 1536.