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Cristo che una fiata, prima che io muoia, vendili a rivedere il giardino dove fiori la mia gioventú. A Dio.

Di Venezia, il 28 di genaio 1536.

LXIII

A LO IMPERADORE

Accenna alla nuova guerra mossa da Francesco I a Carlo V a causa della successione al ducato di Milano. Per avvicinarsi la Maestá Vostra a Iddio piú d’altro uomo che fusse mal, sendo proprio d’Iddio il dare orecchia tanto ai preghi dei servi quanto ai voti dei principi, ardisco di salutar la fede, la religione, la pietá, la fortuna, la mansuetudine, la bontá, la prudenzia e il valor di Quella con questa mia. E, se cotal carta avesse spirito, preporrebbe se istessa a tutte le gloriose carte degli antiqui, solo per aver a essere non pur letta, ma tócca dal veramente amico di Cristo, Carlo augusto, ai cui meriti dee tosto inchinarsi l’universo. Ed è certo che, si come Iddio ha, per dar luogo ai suoi meriti, allargato il mondo, bisogna anco che alzi il cielo, perché lo spazio di tutta l’aria non è capace al volo de la fama sua. E chi non crede che le grazie divine, piovute in Moisé, in Iosue e in David (onde vinsero e con le orazioni e con l’armi), non sieno infuse ne lo altissimo petto vostro, è in quel cieco furore, che move gli esserciti che vi vengono adosso. Io, o Cesare, gli assimiglio a un torrente gonfiato da le piogge, da le nevi e dai ghiacci distrutti dal sole, il quale è inghiottito da quei campi che si credette bere, mentre la superbia del suo corso se ne faceva letto. Dico che questo nuovo impeto sparirá via nel modo che, in ciascuna impresa fattavi contro, è sempre sparita e sempre sparirá ogni gente, ogni insegna e ogni nome; perché chi contende con Cesare combatte con Dio, e chi pugna con Dio confonde se stesso, e chi confonde se proprio spegne se medesimo, e chi anulla il suo essere riman niente. E, se ciascun che vi