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potente, non giá. Chi sa quel che dee essere? I fini de le cose riescono il piú de le volte a un capo non pensato, e le simiglio a colui che si tuffa sotto l’acqua notando, il quale appar sempre a sommo dove altri non poneva mente. Stiamo a vedere i miracoli che sanno fare i cieli, e, confidandoci in Dio, speriamo bene di continuo. E chi si vòle acquetare negli affanni, riguardi che sono piú i miseri che gli restano dietro che i felici che gli vanno inanzi; e spesso spesso, per la ignoranza del futuro, noi ridiamo di quello che doveremmo piangere e piangiamo di quello che doveremmo ridere.

Di Venezia, il 23 di agosto 1535.

LIII

AL SIGNORE ERCOLE DUCA DI FERRARA

Gli manda in dono un anello con una turchese. Veramente, signore, io poteva chiamar buona la mia sorte, se io, dopo l’essere stato messo dal duca di Ferrara nel numero dei suoi servi, l’avessi di subito visto, come mi credea vedere; ma, udendo il suo non venire cosi tosto, son rimaso ne la maniera che rimangono coloro che il giorno diterminato a la lor festa si veggono e da la pioggia e da la tempesta disfare tutta la pompa de l’apparato, che aveano fatto per farsi onore. Pur, signor mio, degnativi, con l’accettar la turchese venutami da Constantinopoli, che per il gentilissimo messer Alberto Turco vi mando, di consolar me, sconsolato per il differir di cotal venuta. Io ne faccio un presente a Vostra Eccellenza, perché Quella sa bene la vertú che elle hanno in dito di chi cavalca, massimamente quando son donate. Io la dono a lei, che dee cavalcare; e il valor vertuoso di cosi fatta pietra è tanto maggior d’ogni altro, quanto io ve la do col piú grande affetto e con la piú gran fede del mondo. Siatemi adunque cortese in prenderla e per il viaggio, che felicemente farete, portarla; ché,