Pagina:Aretino, Pietro – Il primo libro delle lettere, 1913 – BEIC 1733141.djvu/327

del grado sommo, che ai meriti di Sua magnanima Signoria ha dati il re vostro, la Maestá del quale vi colma il petto di letizia col suo esser, con tanto apparato di gente e d’armi, corso a far suo l’imperio d’Italia.

Di Venezia, il 30 di novembre 1537.

CCLXIV

A MESSER LODOVICO FOGLIANO

Gode che egli traduca in volgare Aristotele. Volesse Iddio, caro fratello, che le prose masticate da la continua diligcnzia di molti fussero cosi pure e cosi usate come son le parole, che, mentre parlate, vi trae di bocca l’uso famigliare de la favella; perché la scabrositá de l’altrui composizioni non romperebbe, a chi brama di vederle, la volontá di leggerle tosto che ci porge l’occhio. Io so che il mio giudizio non ha che fare col ben ch’io vi voglio: pure crediate a quel poco di spirito che lo move, il quale vi giura per il sacramento de l’amicizia che, se cominciate a ritrare nel vulgar nostro il greco d’Aristotile, sarete cagione di far piú che uomini assai di quelle persone, che, per non intendere l’altrui lingue, non posson mostrare il benefízio datogli da la natura. Certo che voi piú solo séte atto a rischiarare le sue tenebre con la piana locuzione, aprendo dolcemente i sensi de le cose confuse nei nuvoli de le materie. È pur soave, nel formare de la voce, il suono che proferisce l’ordine dei subietti scritti, non inciampando negli «altresí * e nei «clienti», sendo si piacevoli «ancora» e «quanti». Che abbiam noi a fare dei vocabuli usati, non si usando piú? Certo che chi scorgesse ora un cavaliere in giornea crederebbe che fosse o mascherato o impazzito. A me par vedere ser Apollo con le calze a campanile, quando veggio «uopo» in collo di questa e di quella canzone. Rispondo ai pedagoghi, i quali dicono che tutti i migliori non levano mai la penna dal latino di Cicerone, che