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rispondervi. Compare, la fante de la gloria fa lume al buio del mio nome con una candela di sego e non col torchio: perciò porto l’ignoranza in su la palma de la mano, pregandola che faccia si che i dotti non mi scomunichino, quando la presunzione, c’ha in se stessa ciascuna sorte di gente, mi pon la penna ne l’inchiostro sacrato. Veramente io, che tanto andai a la scuola quanto intesi la Santa croce, fatimi bene imparare , componendo ladramente, merito scusa, e non quegli che lambicano l’arte dei greci e dei latini, tassando ogni punto e impuntando a ogni

  • che *, facendosi riputazione con l’avertenza de l’acuto d’una

vocale. — Io — disse Gian Giordano — non so né ballar né cantare, ma chiavarci come un asenazzo. — Si che, leggendo le mie coglionerie, scusatimi con voi stesso, perch’io son piú tosto profeta che poeta.

Di Venezia, il 25 di novembre 1537. Dolce ambrosia d’Apollo, le cui stille spruzzoli liquor di gloria e d’intelletto, tal desio dei miei scritti árdevi il fletto, che 11 ’abbiate a scoprir tante faville? Ditemi pur che ’l mio saper destille nettare e mèl con eloquente effetto, aciò che poi, drizzandovi alcun detto, l’ombra diventi de le vostre squille. lo me conosco e voi, e so che l’arte vostra è del dire, e so che chiaro séte in quegli onor che ponno dar le carte. So che dal ciel la poesia traete. Però, s’appagar voi bramate in parte e rime e versi a voi stesso scrivete.